Munch

L’Urlo (1893). Galleria Nazionale, Oslo

 

Edvard Munch (1863, Løten – 1944, Oslo)

«… il pittore esoterico dell’amore, della gelosia, della morte e della tristezza»

 

L’infanzia di Munch fu segnata da una lunghissima serie di lutti famigliari, tanto che avrebbe scritto in seguito: «ho ereditato due dei più spaventosi nemici dell’umanità: il patrimonio della consunzione e la follia». Malattia, infermità, morte e pene diventarono per l’artista le condizioni caratterizzanti la vita umana, in quest’ottica, evocarne l’allucinante violenza attraverso la rappresentazione artistica, diventava quasi un modo per esorcizzarle.

 

La Norvegia, all’epoca, era un Paese privo di una tradizione pittorica indipendente: tutto ciò che alla fine dell’Ottocento ad Oslo poteva passare per avanguardismo artistico, non era altro che una rielaborazione dell’Impressionismo francese in chiave naturalistica. Fu questo il clima che influenzò l’esordio artistico del Maestro, finché, da autodidatta, trovò uno stile personalissimo.

 

Con l’opera “Il bambino malato”, ogni collegamento con lo stile naturalista ed impressionista venne irrimediabilmente spezzato: lo spazio, persa qualsiasi struttura chiusa, diventa amorfo ed è un luogo nel quale le figure, semplificate, sono preda di profonde emozioni. Il colore è il corrispettivo ottico della malattia.

 

Nel 1885 iniziò una serie di dipinti dal titolo “La fanciulla malata”, aventi per tema una ragazza giovanissima in fin di vita a causa della tisi; in tali opere riecheggiano le tragiche morti che hanno segnato la giovinezza del Maestro, «Credo che nessun pittore abbia vissuto il suo tema fino all’ultimo grido di dolore come me quando ho dipinto La bambina malata. […] Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finché la morte venne a prenderli». Non è il dolore fisico ad essere protagonista, bensì quello psicologico, la disperazione esistenziale di «esseri viventi che hanno respirato, sentito, sofferto ed amato».

 

Munch, per la sua sensibilità ed esperienze di vita, fece suo lo spirito di quel periodo che metteva fortemente in dubbio le capacità dell’essere umano alla luce dell’insondabilità del suo inconscio.

 

L’opera di questo settimana non poteva che essere “L’urlo”, trasposizione su tela di un evento autobiografico: «Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». Balza subito agli occhi una figura, terrorizzata, che per urlare si tiene la testa tra le mani; questo grido sovrumano l’ha trasfigurata, il suo corpo è deforme, rendendola quasi un fantasma. Il corpo appare morente, con gli occhi sbarrati, le narici dilatate e le labbra nere: ogni goccia di vita è stata prosciugata da un abominio. Il centro dell’opera è occupato dalla bocca, aperta in maniera innaturale, che col suo urlo toglie equilibrio al paesaggio distorcendolo. Il suo volto è di un pallore cadaverico.

 

Gli unici a non essere coinvolti da questo grido dell’intera razza umana sono i due uomini sula sinistra, i quali rimangono insensibili davanti a questa catastrofe emozionale; questo simboleggia la falsità e vanità dei rapporti umani. Guardando dentro di sé l’artista e l’intera umanità non trovano altro che sofferenza. Il paesaggio è innaturale, ostile, quasi un prolungamento dell’angoscia del Maestro; il mare è nero ed il cielo è solcato da nuvole cariche di un rosso sanguinolento.

 

Vorrei chiudere il post di questa settimana con questo pensiero di Munch: «In generale l’arte nasce dal desiderio dell’individuo di rivelarsi all’altro. Io non credo in un’arte che non nasce da una forza, spinta dal desiderio di un essere di aprire il suo cuore. Ogni forma d’arte, di letteratura, di musica deve nascere nel sangue del nostro cuore. L’arte è il sangue del nostro cuore». I suoi dipinti, che sembrano il trionfo della solitudine dell’uomo nella sofferenza universale, rappresentano il desiderio di Munch di aprire il proprio cuore di fronte all’umanità intera, di svelarne le sofferenze e le inquietudini più profonde; per esorcizzare quel grande ed infinito urlo che chiunque ha sentito, almeno una volta, nella propria vita.

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