Canaletto

Regata vista da Ca’ Foscari (1732). Royal Collection, Windsor

 

Antonio Canal, detto il Canaletto (1697, Venezia – 1768, Venezia)

«Una rigorosa verità d’osservazione in una incantevole serie di vedute»

Figlio di un “pittore da teatro”, scenografo, Canaletto iniziò il suo apprendistato nella bottega del padre. Da giovanissimo si recò a Roma per realizzare le scene di due drammi di Scarlatti; questo viaggio gli fece fare conoscenza con la pittura vedutista. Questo genere pittorico, sviluppatosi nel Settecento, è distinguibile in due filoni: il capriccio, nel quale vengono rappresentati paesaggi totalmente di fantasia oppure costituiti da elementi reali ma modificati per renderli più teatrali; e la veduta realistica che riproduce fedelmente il vero. Vedute di natura e città erano già stabilmente presenti nella storia dell’arte ma, col vedutismo, i paesaggi costituiscono il semplice sfondo dell’azione umana.

Canaletto, al suo rientro a Venezia, si dedicò ai capricci ed alle vedute idealizzate; la sua tecnica lo fece diventare, in pochissimo tempo, uno dei pittori più affermati e richiesti. Le sue prime opere, influenzate dalla sua formazione di pittore di scenografie, presentavano colori molto scuri e forti contrasti fra ombre e luci; molto velocemente Canaletto passò a toni più luminosi capaci di infondere serenità alla composizione. Grazie all’utilizzo di una camera ottica (antenata delle moderne fotocamere), con la quale si aggirava per la sua città, il Maestro riusciva ad abbozzare immagini di straordinaria precisione da rielaborare in studio. Era questa la sua peculiarità: la ricerca minuziosa dei dettagli per ricostruire una personalissima visione di Venezia, deformata e stravolta nelle proporzioni per ottenere l’effetto desiderato. La Serenissima venne ritratta in ogni suo angolo e la sua quotidianità fissata su tela, Canaletto ne colse i fasti dipingendo le regate, le celebrazioni solenni e le visite di personalità importanti.

La crescente fama lo fece notare ai vari giovani ricchi aristocratici inglesi che visitavano Venezia quale tappa preferita del Gran Tour, ma il personaggio che si rivelò decisivo per la sua carriera fu Joseph Smith, facoltoso collezionista e console britannico nella Serenissima. Inizialmente cliente di Canaletto, Smith ne diventò presto l’intermediario, regolandone la produzione ed il mercato, con la ricca clientela inglese. Nel 1746 il Maestro, preceduto da una solida fama, si trasferì a Londra dove realizzò varie vedute della città e della campagna circostante. Alla Laguna si sostituì il Tamigi ma la visione dell’artista rimase immutata.

Il percorso poetico di Canaletto andò malinconicamente a concludersi nei suoi ultimi anni di vita quando, rientrato in patria, le sue opere si conformarono alla routine dei canoni convenzionali.

L’opera di questa settimana è “La regata vista da Ca’ Foscari”, capolavoro di un’originalissima sintesi di luce e colore. In tale dipinto è rappresentata una delle feste più tradizionali di Venezia; la maestria di Canaletto è evidente nella rappresentazione dell’addensarsi della folla, ottenuta attraverso il cristallizzarsi della luce, delle imbarcazioni ai bordi del canale, e l’inseguirsi delle gondole. La luce pomeridiana splendente è sospesa sulle facciate dei palazzi. Gli edifici svolgono il ruolo di sipario per il canale brulicante di vita ed azione. Quest’opera è il trionfo della veduta pura e sincera, nella quale viene rivelata l’essenza più profonda del soggetto.

Ciò che ha reso Canaletto immortale è stato l’essere in grado di sostenere a lungo il ruolo di pittore ricercatissimo dai contemporanei, oggi sarebbe stato definito artista “commerciale”, senza lasciar corrompere la sua ispirazione poetica e la qualità delle sue opere, cosa che, ieri come oggi, è più unica che rara.

Delacroix

Libertà che guida il popolo (1830). Museo del Louvre, Parigi

 

Eugène Delacroix (1798, Charenton-Saint-Maurice-1863, Parigi)

«Un grande genio malato di genio» Baudelaire

 

«Nei salotti tutti sussurravano: “Peccato che un uomo così affascinante faccia quadri del genere” », con queste parole Gautier ci trasmette il pensiero che la pittura di Delacroix suscitava nei francesi del tempo. In una Parigi abituata alle convenzioni stilistiche della scuola classica proprie dell’Accademia, Delacroix sconvolse fin da subito qualsiasi abitudine visiva: i suoi colori sono vibranti ed accesi, le sue composizioni si torcono e guizzano all’inseguimento di una forma solo accennata, il mondo raffigurato è agitato da passioni ed inquietudini.

 

Delacroix si ricollega ai maestri rinascimentali, non a caso è uno degli artisti più colti della sua generazione, per il risalto dato alla pittura di storia e per il vigore morale che infonde nelle sue composizioni, affiancandoli alla sua immaginazione ed interiorità. Nonostante la sua formazione classica, nella sua arte predomina il Romanticismo che, nelle esplosioni di colori e passioni, trascina l’osservatore nei movimenti e drammaticità delle scene dipinte. I personaggi che dipinge hanno un’anima, una vita interiore, nelle sue nervose pennellate e negli accesi contrasti cromatici si ritrova una vibrante emozione creativa che coinvolge lo spettatore. Le sue opere sono specchio dei suoi sogni, incubi e passioni; è questo che le faceva risplendere di una luce nuova nelle mostre annuali del Salon, fatte di sale stracolme di opere tutte uguali e senz’anima. Un bagliore che in pochissimi riuscirono a capire ed apprezzare, non riuscendo ad andare oltre le polemiche per i colori audaci e l’anticonformismo, perdendo la sincera trasposizione di un’anima, di quello che la turba, appassiona e commuove.

 

Per Delacroix la pittura «è una silenziosa potenza che parla dapprima agli occhi e che raggiunge e si impadronisce di tutte le facoltà dell’anima», da qui la necessità dello studio della realtà, della ricerca del vero e dell’uso dei colori che costituiranno un punto di riferimento per gli impressionisti. Contrapposta a questa è la sua visione del corpo materiale che zavorra la pura espressione dello spirito, da qui l’esaltazione dell’immaginazione come strumento rivelatore dell’interiorità.

 

L’opera di questa settimana è la “Libertà che guida il popolo”, nella quale una barricata diviene il simbolo di un sentimento collettivo, allegoria volta a celebrare la rivoluzione del Luglio 1830. Il dipinto scandalizzò il pubblico e venne considerato sovversivo, pericoloso. Nel caos del conflitto urbano, protagonista assoluta è Marianne, personificazione della Repubblica francese e dei suoi valori, che al centro del dipinto stringe in una mano il tricolore, nell’altra un fucile ed in testa indossa un cappello frigio, simbolo della rivoluzione. Marianne volge lo sguardo verso i cittadini esortandoli a combattere, fra loro sono presenti persone di diverse estrazioni sociali e di tutte le età; alla sua destra un ragazzino a rappresentare la forza ed il coraggio dei giovani. Ai piedi di Marianne un ragazzo inginocchiato la guarda con ammirazione, ritenendola l’unica forza in grado di cambiare la società. Al di sotto dei combattenti sono rappresentati i caduti, militari e rivoluzionari.

La scena è circondata da una coltre di fumo dovuta alla battaglia, che si dirada sulla destra per lasciare intravedere la cattedrale di Notre-Dame che ci permette di collocare la scena a Parigi.

Le tonalità utilizzate sono molto scure tranne che per la luce che accompagna i movimenti di Marianne; bleu, bianco e rosso, i colori della bandiera francese, sono utilizzati per vari dettagli. Il messaggio che Delacroix vuole trasmettere è l’ideale romantico della rivoluzione, nella quale ciascuno può combattere, anche idealmente, per raggiungere la libertà.

 

Voglio chiudere l’argomento di questa settimana riportando questo pensiero di Delacroix: «L’uomo reca nell’animo sentimenti innati, che non saranno mai soddisfatti dagli oggetti reali, ed è a tali sentimenti che la fantasia del pittore e del poeta daranno forma e vita».

Masaccio

Il Tributo (1425 circa). Cappella Brancacci, Firenze

 

Tommaso di Ser Giovanni Cassai, detto il Masaccio (1401, San Giovanni Valdarno – 1428, Roma)

«Optimo imitatore di natura, di gran rilievo universale, buon compositore ed puro sanza ornato, perché solo si decte all’imitazione del vero et al rilievo delle figure».

 

Tommaso, fin da giovanissimo così preso dall’arte da trascurare se stesso (da qui il soprannome Masaccio), arrivò a Firenze nel 1417, periodo nel quale la città stava vivendo una rivoluzione artistica e culturale che aveva stravolto l’architettura e la scultura, grazie soprattutto alle prime opere di Brunelleschi e Donatello. Furono proprio questi i Maestri che Masaccio scelse come punti di riferimento per l’affinità artistica che condivideva. Tutto questo fermento non aveva coinvolto la pittura, ancora legata allo stile tardo gotico così apprezzato dalla committenza ecclesiastica e nobile; l’ormai consolidata tipologia di questo stile lo rendeva facilmente riproducibile da meri copisti disinteressati a qualsiasi sviluppo artistico.

 

Fu Masaccio a trasferire questo nuovo stile nella pittura, attingendo a Brunelleschi, Donatello e Giotto, introducendo nelle sue opere un attento uso della prospettiva e dando forte rilievo a figure modellate dalla luce, in modo da ottenere raffigurazioni prive di ornamenti ma ricche di contenuti morali. La prospettiva di Giotto, in particolare, seppure empirica, venne ripresa, rinnovata ed arricchita da Masaccio, attraverso l’uso dei contemporanei avanzamenti nel campo dell’anatomia e della tecnica del chiaroscuro; venne così scardinata la “prospettiva gerarchica”, in vigore fin dal Medioevo, secondo la quale le figure dovevano avere dimensioni maggiori o minori sulla base della loro importanza. È il trionfo della razionalità e realtà sui valori simbolici delle rappresentazioni.

 

«Puro senza ornato» è questa la definizione più calzante dello stile di Masaccio caratterizzato dal trattamento della figura umana, da un’ordinata e chiara definizione degli spazi, luce ed atmosfera, ovvero un nuovissimo modo di raffigurare la realtà, di restituire la natura alla sua integrità a stretto contatto con l’uomo che ne rappresenta sia il momento essenziale che l’operoso modificatore.

 

L’immagine che ho scelto per il post di questa settimana è l’affresco intitolato “Il Tributo”, da molti considerato icona del Rinascimento, commissionata nel 1423 da Pietro Brancacci per decorare la cappella di famiglia nella chiesa del Carmine a Firenze. In quest’opera è rappresentato un episodio nel quale Gesù ed i suoi discepoli, per attraversare un ponte si trovarono a dover pagare un pedaggio. Non avendo denaro, Gesù disse a San Pietro di pescare un pesce dal fiume, nella bocca del quale verrà ritrovata la moneta necessaria per pagare il passaggio. L’immagine è sincrona, tutte le fasi della narrazione avvengono nello stesso momento. Rifacendosi alle sculture di Donatello, le figure sono caratterizzate da una monumentalità e serietà mai viste prima; enormi e solenni sono l’incarnazione della virtù e dignità umane proprie della filosofia rinascimentale. La scena è ambientata non in qualche luogo immaginario del passato ma, per la prima volta nella storia dell’arte fiorentina, nella campagna toscana e nelle strade di Firenze; questa rappresentazione di figure eroiche ambientate in un punto preciso del tempo e dello spazio, eleva e santifica il mondo dell’osservatore, ovvero la Firenze quattrocentesca.

 

La scena è illuminata dall’angolo in alto a destra, armonizzandosi in questo modo con la luce naturale della cappella. Masaccio usa le persone per creare la prospettiva, in particolare il gruppo di Gesù e degli apostoli al centro: se tutte le teste sono sulla stessa linea, ad indicare che l’osservatore si trova alla loro stessa altezza, i piedi sono collocati su piani orizzontali diversi, ciò fa variare la loro altezza e distanza. Le montagne sullo sfondo sono realisticamente rappresentate attraverso la prospettiva atmosferica: l’illusione della profondità è creata schiarendo i toni dei monti più lontani, simulando i cambiamenti causati dall’atmosfera sui colori di oggetti distanti. L’opera è rappresentazione della società contemporanea, i protagonisti della quale sono uomini fortissimi che hanno affrontato e vinto le fatiche della terra, cittadini stessi della Repubblica fiorentina, riconoscibili uno ad uno, solenni nel corpo e nell’anima rispettosi della santa disciplina del vivere.

 

La carriera artistica di Masaccio è durata solo sei anni e non lasciò nessuna bottega né alcun allievo, ma le sue opere hanno esercitato una fortissima influenza sugli artisti che lo hanno seguito (artisti del calibro di Leonardo da Vinci, Michelangelo e Raffaello) e sull’intera pittura Occidentale, consacrandolo immortale Maestro del colore.

Monet

Ninfee (1916-1919). Musee de l’Orangerie, Parigi

 

Claude-Oscar Monet (1840, Parigi- 1926, Giverny)

«Un volto nuovo della realtà rivelato dall’occhio del più importante pittore impressionista»

 

L’opera di Monet è strettamente legata a quel movimento che concluse le ricerche del naturalismo ottocentesco ed inaugurò l’arte moderna: l’impressionismo. La realtà mostra un volto nuovo, luminoso, arioso e fresco, i colori risplendono e la natura emerge viva e gioiosa. «Dipingo come un uccello canta», queste le parole scelte da Monet per descrivere la spontaneità e naturalezza del suo gesto creativo che ha disegnato un confine netto tra un prima ed un dopo. Prima, le ombre erano scandite da colori neutri, impera il chiaroscuro, l’atmosfera è cristallizzata e la luce serve per risaltare la consistenza esatta della forma; dopo, anche nelle ombre domina il colore, il nero è bandito, la forma è definita dalla vibrazione pulviscolare della luce e ne diventa sostanza fisica, il quadro è un’impressione fuggevole della natura rappresentata nella sua mutevolezza.

 

Nelle opere di Monet i colori (puri, non diluiti) scoppiano sulla tela in una moltitudine di pennellate piccole e veloci, i dettagli non sono a fuoco come a rappresentare un colpo d’occhio, il mondo viene rappresentato in un modo del tutto nuovo. Se il pubblico rimase sconcertato davanti a quelli che vedeva come abbozzi informi dagli assurdi colori, i pittori accolsero con scetticismo questo nuovo stile che ribaltava i principi della tradizione e che lasciava “incompiuta” l’opera. È proprio questa l’originalità dello stile di Monet: abbozzare il soggetto permette di fissare l’impressione del momento senza successivi ritocchi e ripensamenti che ne tradirebbero la spontaneità. Monet non dipinge quello che sappiamo delle cose, ma soltanto la realtà sensibile, quello che si vede. La costruzione ideale della realtà viene soppiantata dai fenomeni ottici della visione così, per esempio, gli alberi di un bosco o le case di una città, viste da lontano, diventano masse indistinte.

 

Le soluzioni della pittura tradizionale non erano più di alcun aiuto per il nuovo stile di Monet, il quale creò una pittura basata su pennellate frantumate in tocchi e virgole, nelle quali il colore risplende e la sostanza non è altro che la luce che si fa materia. Le pennellate sono staccate le une dalle altre e le sfumature diventano superflue; se l’osservazione del pittore è esatta l’immagine si ricomporrà, nell’occhio di chi osserva il quadro, in tutti i suoi dettagli. Da questo traspare l’intelligenza di Monet, l’aver riconosciuto all’esperienza sensoriale e razionale dello spettatore un ruolo di primo piano nella lettura ed interpretazione attiva delle opere. Il suo sviluppo artistico, dalle prime e quasi timide prove paesaggistiche, alle estreme rappresentazioni delle Ninfee, è determinato dal costante approfondimento del problema della luce e dalla consapevolezza di aver potenziato le capacità visive di coloro i quali avevano seguito e compreso i suoi lavori precedenti.

 

L’interesse di Monet verso le problematiche della rappresentazione ottica non deve lasciare adito a giudizi affrettati che potrebbero catalogarlo come un mero registratore fedele e scientifico delle impressioni ottiche, un abile decoratore: in realtà Monet è stato il primo a realizzare l’accordo tra osservazione del reale e trasfigurazione lirica. Il termine “impressione”, quindi, non indica il puro e semplice fenomeno ottico, ma anche l’emozione scaturita dal profondo dell’artista; si vede ciò che si ama e che si sceglie di vedere. E Monet ama la luce del sole che rivela le meraviglie della natura, l’aria aperta, la vita gioiosa delle cose e degli uomini, l’en plein air contrapposto alla pittura in studio dell’insegnamento accademico che soffoca il calore del sentimento dell’impressione.

 

Come immagine del post di questa settimana ho scelto un quadro della serie delle Ninfee, che occupa gli ultimi venti anni della sua vita, dedicata al giardino acquatico realizzato da Monet nella sua villa a Giverny. In quelle acque calme e ridenti non si rispecchiano solo le ninfee, quasi dissolte nell’atmosfera, ed il cielo, ma anche l’anima stessa dell’artista, commossa dal miracolo di un fiore che sboccia e cresce, malinconica, infiammata dalle passioni ed inquieta. Con il passare degli anni i particolari dell’ambiente circostante vanno via via scomparendo lasciando solo i fiori, che diventano espressione del profondo amore che Monet nutriva nei confronti di questo mondo e di tutte le creature. Con queste ultime grandi opere, intrise di un furore immaginativo che rinvigorisce anche l’impasto cromatico dei dipinti si spegne la vita creativa del grande artista.

 

Dunque, un fiore come testamento artistico di un vero precursore che ha saputo ampliare la nostra percezione dell’Universo. Non penso sia un caso che proprio nel momento in cui la vista, quel senso così idolatrato in gioventù, lo ha tradito, Monet sia riuscito ad infondere alle sue opere emozioni e sentimenti che le hanno rese vere Opere immortali. In fondo è vero, «non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».

Pontormo

Giuseppe in Egitto (1518, circa). National Gallery, Londra

 

Jacopo Carucci detto il Pontormo (1494, Empoli-1557, Firenze)

«Fra la regola rinascimentale e la “licenza” moderna, la più possente pittura di maniera».

 

Il periodo attorno al 1507, anno in cui Pontormo arrivò a Firenze, rappresentò un tempo delicato per la pittura fiorentina: la partenza quasi simultanea di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, spinse molti artisti verso gli schemi delle botteghe quattrocentesche e del classicismo.

 

Pontormo, appena tredicenne, ebbe modo di frequentare per pochissimo tempo la bottega di Leonardo, dove rimase impressionato dagli effetti di luce del Maestro. La sua formazione artistica è stata caratterizzata da continui cambiamenti di maestro che gli offrirono quelle suggestioni che caratterizzarono il suo personalissimo inserimento nella cultura contemporanea.

 

Secondo la testimonianza di Vasari, Pontormo non era soddisfatto della sua prima opera pubblica, l’Arme di Leone X, ed avrebbe voluto rifarla, segno della sua costante coscienza autocritica e della montante insofferenza verso la tecnica del suo maestro Andrea del Sarto. Già in un’opera di pochi anni dopo, la Veronica, ispirazione è il ben più prorompente modello michelangiolesco del Tondo Doni, ma ancora unito alla lezione classica.

 

La completa rottura con la regola rinascimentale è evidente nella Madonna e Santi; in quest’opera del 1518 è chiara l’influenza del “manierismo”. Con questo termine viene indicata una variante anticlassica, tormentata, ricca di finezze ed audacia, della cultura rinascimentale. In Pontormo la ricerca di una nuova maniera è “purificata” da un autentico tormento: anche quando l’abbandono alla maniera moderna sembrava completo, il richiamo alla regola rinascimentale rimaneva angosciosamente potente; nelle parole di Vasari «(una) licenzia, che non essendo di regola, (era) ordinata nella regola». Testimonianza di questo conflitto sono i tanti disegni di Pontormo nei quali, il fascino del naturale, la bellezza delle forme, l’ordine classico appartenenti alla regola, sono risucchiati dall’irresistibile fantasia, dalle audaci soluzioni dispositive e dalle variazioni di luce e materia.

 

L’immagine del post rappresenta l’opera Giuseppe in Egitto, nella quale emergono prepotenti i richiami alla nuova maniera. Una serie di episodi, rappresentati su piani diversi, raccontano il ricongiungimento di Giuseppe con la sua famiglia in Egitto; il protagonista, facilmente identificabile grazie alla sua tunica ocra, mantello violaceo e copricapo rosso, appare più volte in una narrazione continua. I colori sono ricchi e vividi con forti contrapposizioni tra luci ed ombre non più ammorbidite dal chiaroscuro sfumato. La composizione, decentrata e quasi caotica, è affollata da un brulicare di personaggi caratterizzati da volti e panneggi ispirati alle incisioni tedesche, nordico è anche l’aspetto del castello e degli alberi.

 

Pontormo, che pure ebbe potenti protettori come i Medici, non ebbe un apprezzamento duraturo. I commenti di Vasari, che dopo averne lodato le opere giovanili non apprezzò quelle più mature, gettarono per molti secoli un velo di disinteresse su Pontormo. L’inversione di tendenza si verificò agli inizi del Novecento quando, dopo la fioritura dell’impressionismo e delle avanguardie, vennero rivalutate le anticipazioni del linguaggio pittorico moderno liberato dalla fedele riproduzione della realtà. Di Pontormo vennero apprezzati i gesti innaturali e stilizzati, le prospettive irreali ed audaci, i drappeggi artificiosi e le espressioni pensose ed impaurite, ovvero tutto ciò che venne considerato negativo al suo tempo.

 

Dal mio punto di vista dalle opere di Pontormo traspare un messaggio profondo, ossia quella curiosità che porta l’uomo a liberarsi degli schemi già pronti ed a trovare nuove vie per esprimere il proprio ingegno, incurante delle perplessità che ciò poteva scatenare. In fondo, non è questa la molla che ci ha fatto progredire come specie?

Bosch

Trittico del Carro del fieno (1516 circa). Museo del Prado, Madrid

 

Hieronymus Bosch (1453-1516, Olanda)

«inventore… maraviglioso di cose fantastiche e bizzarre» L. Guicciardini.

 

Nel mondo dipinto da Bosch è sempre presente il tipico sottofondo di terrori, speranze, angosce e credenze di quel periodo di Medioevo ormai prossimo alla fine. Le sue tavole, brulicanti di vita, mostrano un universo posseduto dal maligno e dal peccato che hanno scardinato l’ordine delle cose.

 

L’epoca di Bosch è caratterizzata da un violentissimo sentimento religioso nel quale si rifletteva il contrasto tra la sensualità ed il misticismo fiamminghi: ai costumi esageratamente licenziosi, all’imperante gusto per l’osceno, al pullulare di sette e comunità, si contrapponeva la lotta spietata contro le pratiche magiche (è di quel periodo il Malleus maleficarum).

 

Queste tematiche, facilmente accessibili ai suoi contemporanei, risultano criptiche oggigiorno; il bisogno di interpretare la straripante miriade di simboli ha spesso messo in secondo piano lo spessore artistico di Bosch. La critica non è riuscita ad indicare chiari precedenti della pittura di Bosch la quale, anche se impregnata di spiriti gotici, appare nuova, isolata e singolare.

 

L’opera che ho scelto come immagine del post, un trittico intitolato Il carro di fieno, è ispirata ad un proverbio fiammingo «Il mondo è un monte di fieno, ognuno ne arraffa quanto può». Al centro compare Cristo nell’atto di dare il via al Giudizio universale, nello sportello di sinistra è raffigurato il Paradiso terrestre nel momento della cacciata dei Progenitori, quello di destra è occupato dalla rappresentazione dell’Inferno.

La parte centrale è dominata dalla massa bionda del carro di fieno che si staglia sul fondo azzurro del paesaggio. Quella che tenta di arraffare una manciata di fieno è un’umanità rissosa, carica di violenza, la gente finisce stritolata sotto le ruote del carro trainato da uomini mascherati flagellati da un mostro; in coda a questo grottesco e solenne corteo possiamo vedere il Papa, l’Imperatore e vari principi.
In primo piano si trovano il cavadenti, un non vedente guidato da un ragazzo, un prete seduto servito dalle monache che insaccano il fieno. In cima al mucchio di fieno due coppie siedono fra un angelo ed un diavolo.
La composizione è liquida, molto vivace, invita l’occhio ad una minuziosa osservazione dei particolari.

 

Ciò che affascina di Bosch, dal mio punto di vista, è che quando i suoi predecessori si limitarono a raffigurare l’aspetto esteriore dell’uomo, la sua audacia fu di dipingerne l’intimo con l’inestricabile groviglio di bene e di male.